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CONSULENZA TRIBUTARIA, SOCIETARIA E DEL LAVORO
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23 GIU 2016
La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 8121 del 22.04.2016, è tornata sulla vexata quaestio della distinzione tra spese di pubblicità e spese di rappresentanza, in relazione alla valutazione delle cessioni gratuite di abiti griffati ai dopendenti ed attori o comunque a personaggi dello spettacolo, stabilendo che le spese sostenute dall’impresa produttrice per la cessione gratuita di detti abiti a persone di conclamata e riconosciuta notorietà, fuori di ogni patto contrattuale che imponga loro di indossarli in occasione di manifestazioni pubbliche, sono qualificabili come spese di rappresentanza e non come spese di pubblicità, poichè esse non sono direttamente finalizzate ad ottenere, attraverso l’attività di promozione, un incremento commerciale, più o meno immediato, concernente la produzione realizzata in un determinato contesto, onde per cui tali spese sono solo parzialmente deducibili (art. 108 del TUIR); mentre, ai fini IVA, l’imposta assolta non è detraibile (art. 19-bis1 co. 1 lett. h) del DPR 633/72).
Interessante la specificazione della Corte circa la fornitura di capi griffati ai dipendenti con relativo obbligo contrattuale ad indossarli durante le ore di servizio e durante manifestazioni di moda.
In tal caso e cioè in presenza di una specifica pattuizione contrattuale, risulterebbero quindi integralmente deducibili le spese sostenute per i capi ceduti gratuitamente ai dipendenti in quanto inerenti alla attività d'impresa e qualificabili come spese per prestazioni di lavoro dipendente (art. 95 del TUIR).

TESTO SENTENZA

RITENUTO IN FATTO

1. Il presente giudizio di legittimità fa parte di un vasto contenzioso fiscale riguardante riprese a imposizione diretta e sul valore aggiunto nei confronti della holding GIVI del Gruppo Versace per gli anni d'imposta 1999, 2000, 2001 e 2002. Le varie vertenze, pur presentando in comune gran parte dei profili controversi, sono diversamente declinate In ragione dei differenti esiti dei separati giudizi di merito.
2. Per quanto qui strettamente rileva, con sentenza n. 47-12 del 15 luglio 2008 la CTR della Lombardia, per l'anno d'imposta 1999, riconosceva quali spese di rappresentanza parzialmente deducibili i costi per l'acquisto di capi griffati per personale avente contatti col pubblico; riteneva la non inerenza dei costi per la fornitura di capi griffati ai dipendenti degli uffici amministrativi; affermava la natura pubblicitaria delle altre spese contestate, ivi comprese quelle per quadri e arredi artistici.
Il fisco propone ricorso principale con quattro motivi; la contribuente resiste con controricorso, ricorso incidentale (affidato a cinque motivi) e memoria illustrativa.

CONSIDERATO IN DIRITTO

A. Eccezioni di giudicato esterno.
Preliminarmente, con memoria e produzione integrativa e discussione orale, la contribuente eccepisce, il giudicato favorevole che si sarebbe formato rispetto alla decisione della CTR-Lombardia sull'anno d'imposta 2001. Più in dettaglio con le ultime difese precisa che, per effetto della definitività della decisione delle CTR sull'anno d'imposta 2001, si sarebbe formato giudicato esterno favorevole alla contribuente (a) sui costi annotati nel conto «spese promozionali di gruppo» e «spese promozionali di terzi», erroneamente ritenute dal fisco parzialmente deducibili perché di mera rappresentanza; (b) sui costi annotati nel conto «divise dipendenti -gruppo» e «altre divise gruppo», erroneamente ritenute dal fisco per una parte limitatamente deducibili perché di mera rappresentanza e per un'altra parte indeducibili perché non inerenti. Da ultimo, in sede di discussione, accenna a giudicati esterni che si sarebbero formati su parti non impugnate dal fisco delle decisioni sugli anni d'imposta 2000 e 2002. A sua volta la difesa erariale, sempre in sede di discussione ma in via subordinata, eccepisce il giudicato esterno a sé favorevole che si sarebbe formato sull'ammortamento ordinario di quadri e arredi artistici.
I rilievi sono infondati perché la sentenza del giudice tributario con la quale si accertano il contenuto e l'entità degli obblighi del contribuente per un determinato anno d'imposta fa stato con riferimento alle imposte dello stesso tipo dovute per gli anni successivi solo per quanto attiene a quegli elementi costitutivi della fattispecie che, estendendosi per loro natura ad una pluralità di periodi di imposta, assumano carattere tendenzialmente permanente (Cass. 6953/2015) perché rigorosamente correlati ad un interesse protetto che riveste il carattere della durevolezza (Cass. 11226/2007 e 15582/2010), mentre non può avere alcuna efficacia vincolante quando l'accertamento relativo ai diversi anni si fondi su presupposti di fatto anche solo potenzialmente mutevoli (Cass. 20029/2011). Giova rilevare che, se da una o più fonti scaturiscano diversi periodi di imposta, il presupposto dell'Imposizione va calibrato in relazione alle poste attive e passive, specificate di volta in volta, differenti anno per anno: e ciò in quanto, per ciascun periodo di imposta, gli elementi di fatto che originano l'imposizione si atteggiano normalmente in maniera diversa (Cass., SS.UU., 14294/2007).
Nel nostro caso, peraltro, gli invocati giudicati esterni affrontano questioni su deducibilità e ammortamento di costi e non vi è specifico rilievo, né risulta altrimenti evincibile, che l'odierno giudizio abbia riguardo esattamente e soltanto gli stessi beni dei cui costi - e della relativa deducibilità - i giudicati medesimi si occupano (Cass. 25668/2013). Anzi, dal contenuto anche delle ultime difese private, si evince che gli importi controversi sono diversi nelle varie annualità, mentre manca qualsivoglia riferimento a specifiche voci di magazzino e/o d'inventario.
In sostanza manca l'elemento indefettibile della medesimezza - ovverosia di una stessa situazione di fatto, di uno stesso rapporto giuridico (Cass., SS.UU., 26482/2007), di uno stesso titolo negoziale (Cass. 244433/2013), di uno stesso rapporto di durata (Cass. 27784/2009; conf. 9512/2009) - per potere legittimare l'ultrattività del giudicato tributario, dal quale è comunque escluso ogni fattore di mera interpretazione giuridica (Cass. 23723/2013).
Inoltre, riguardo alle riprese in materia di IVA, si osserva che esse sono soggette a norme comunitarie imperative, la cui applicazione armonizzata non può essere ostacolata dal carattere vincolante del giudicato nazionale e dalla eventuale sua proiezione anche oltre il periodo di imposta che ne costituisce specifico oggetto (C. giust., 3.9.2009, C-2/08; Cass. 16996/2012).
B. Ammortamento delle spese per quadri e arredi artistici (ricorso principale; motivi 1-2; artt. 7 proc. trib., 112 c.p.c. ; ART. 36 proc. trib.).
Si premette che l'ammortamento è processo tecnico contabile diretto a calcolare il consumo subito dai beni strumentali destinati all'esercizio dell'impresa i cui costi vanno ripartiti in quote pluriennali. Esso può effettuarsi con beni suscettibili di deperimento e consumo dopo un certo numero di anni, sì da dover essere sostituiti quando non risultino più funzionali allo scopo per il quale sono stati acquistati. Dal reddito d'impresa sono infatti detraibili le quote di ammortamento dei beni utilizzabili per un limitato periodo di tempo, perché soggetti a logorio fisico o economico.
Tant'è che la disciplina fiscale dei diversi coefficienti di ammortamento tiene espressamente conto dell'effettivo tasso di usura al quale sono soggetti i beni strumentali in relazione all'impiego cui vengono singolarmente destinati. Pertanto, considerato che i dipinti acquistati per abbellire le pareti di un esercizio non perdono il loro pregio nel tempo, mentre forniscono l'utilità cui sono mirati, ma semmai lo Incrementano, i relativi costi d'acquisto non possono essere inclusi fra quelli pluriennali di produzione del reddito, ma vanno piuttosto considerati tra gli investimenti patrimoniali della società (Cass. 22021/2006, in fattispecie alberghiera).
A tali principi si attiene l'amministrazione nel disattendere l'ammortamento fiscale messo in atto dalla contribuente, che invece sostiene trattarsi di veicoli dell'immagine aziendale atteso che non si tratterebbe di opere d'arte bensì di quadri, mobili e suppellettili in qualche modo riconducibili all'immagine aziendale riproducendo variamente la figura della Medusa, elemento che contraddistingue la riconoscibilità del Gruppo Versace e dei sui marchi.
La CTR nella sentenza impugnata respinge la tesi del fisco e classifica d'ufficio i costi sostenuti per gli acquisti di quadri e arredi artistici nell'ambito delle spese di rappresentanza.
Tale riqualificazione è censurata dal fisco per extrapetizione nel primo motivo. Afferma che di spese di rappresentanza non si parla né nella prospettazione impositiva del fisco, che quale attore in senso sostanziale identifica la causa petendi, né nella prospettazione difensiva della contribuente, che quale attore in senso processuale definisce il perimetro della sua impugnazione di merito. Il giudice d'appello, dinanzi a una pretesa impositiva che nega l'ammortamento di tali beni e dinanzi a una impugnazione di merito sull'inerenza e l'ammortamento dei beni strumentali, introduce d'ufficio non solo un profilo giuridico diverso da quello dibattuto dalla parti (causa petendi), ma soprattutto elementi di fatto (es. intento promozionale etc.) richiedenti accertamenti del tutto diversi (Cass. 10910/2015). Il primo motivo deve, dunque, essere accolto con assorbimento del secondo, logicamente e giuridicamente subordinato.
C. Spese per la cessione gratuita di abiti griffati a VIP (ricorso principale; motivi 3-4; ART.74 TUIR).
La contribuente classifica tali costi come spese di pubblicità, deducibili ai fini delle II.DD. e con IVA detraibile; a tal proposito enfatizza la funzione di propaganda indiretta (o diretta implicita) derivante dall'utilizzo dell'abbigliamento Versace da parte di persone notissime al grande pubblico. Il fisco, invece, classifica tali costi come spese di rappresentanza, solo parzialmente deducibili ai fini delle II.DD. con IVA non detraibile; in proposito valorizza l'assenza di funzione immediatamente promozionale delle vendite e l'utilizzo ai fini dell'accrescimento dell'immagine, del decoro e dell'importanza del Gruppo Versace. La sentenza d'appello accoglie la tesi della contribuente.
La tesi dell'amministrazione è fondata e comporta l'accoglimento del terzo e del quarto motivo di ricorso principale.
Questa sezione ha ripetutamente affermato (Cass. 21270/2008, 17602/2008, 9567/2007) che costituiscono spese di rappresentanza quelle affrontate per iniziative volte ad accrescere il prestigio e l'immagine dell'impresa ed a potenziarne le possibilità di sviluppo, mentre vanno qualificate come spese pubblicitarie o di propaganda quelle erogate per la realizzazione di iniziative tendenti, prevalentemente anche se non esclusivamente, alla pubblicizzazione di prodotti, marchi e servizi, o comunque dell'attività svolta. In definitiva, si ritiene che debbano farsi rientrare nelle spese di rappresentanza quelle effettuate senza che vi sia una diretta aspettativa di ritorno commerciale, e che vadano, invece, considerate spese di pubblicità o propaganda quelle altre sostenute per ottenere un incremento, più o meno immediato, della vendita di quanto realizzato nei vari cicli produttivi ed in certi contesti, anche temporali (Cass. 7803/2000). Il criterio discretivo va, dunque, individuato nella diversità, anche strategica, degli obiettivi che, per le spese di rappresentanza, può farsi coincidere con la crescita d'immagine ed il maggior prestigio nonché con il potenziamento delle possibilità di sviluppo della società; laddove, per le spese di pubblicità o propaganda, di regola, consiste in una diretta finalità promozionale e di incremento commerciale, normalmente, concernente la produzione realizzata In un determinato contesto (Cass. 3433/2017; conf. da ultimo 21977/2015).
Non a caso nella giurisprudenza comunitaria, ai fini dell'IVA, si afferma che la prestazione pubblicitaria comporta la trasmissione di un messaggio destinato a informare il pubblico della esistenza e della qualità di un prodotto o del servizio di cui trattasi allo scopo di incrementare le vendite (C. giust. 17.1993, C 68/92, C-69/92, C-73/92).
Analogamente in dottrina si rileva che le spese di rappresentanza derivano dalla necessità di attuare comportamenti idonei a mantenere alto sul mercato il nome dell'impresa, con ciò, in sostanza, perseguendosi lo stesso fine delle spese di pubblicità e propaganda, ma con la differenza che le spese di rappresentanza non sono finalizzate alla promozione della commercializzazione di un prodotto, alla conquista di un mercato o alla diffusione di una specifica immagine commerciale, ma, in buona sostanza, sono spese per le quali non ci si attende uno specifico ritorno sul versante economico, ma si riferiscono solo all'immagine - anche in forma sfumata - dell'impresa, riferimento che può essere - come nella maggior parte dei casi è - tacito, manifestandosi in comportamenti atti a porre l'accento su decoro e importanza.
La cessione gratuita a VIP di capi d'abbigliamento griffati, pacificamente effettuata al di fuori di ogni patto contrattuale e di ogni consequenziale obbligo giuridico d'indossarli in manifestazioni pubbliche, resta sicuramente estraneo alla fattispecie legale della pubblicità o propaganda di cui all'ART. 74 TUIR mancando l'obiettività di un collegamento immediato con la promozione dì un prodotto o di una produzione e con l'aspettativa diretta di un maggior ricavo. Inoltre, non solo manca ogni dovere - se non quello morale - d'indossare gli indumenti griffati in situazioni di pubblica visibilità, ma, a ben vedere, può mancare persino l'immediata percezione e quindi il diretto riferimento del capo alla griffe per il grande pubblico, se il tutto non sia accompagnato da ben diverso e ficcante messaggio integrativo.
Ciò vale in disparte la gratuità stessa della cessione che per taluna giurisprudenza di legittimità assume connotazione rilevante come spesa di mera rappresentanza (Cass. 10910/2015 e giur. ivi cit.).
D. Spese per la fornitura di capi griffati ai dipendenti (ricorso incidentale, motivi 2-5; ART. 74 TUIR; artt. 62-75 TUIR).
Il fisco ritiene che tali spese non siano deducibili per difetto d'inerenza riguardo ai capi forniti a dipendenti amministrativi o consegnati a indirizzi non riferibili alla sede aziendale; e siano invece solo parzialmente deducibili quali spese rappresentanza riguardi ai capi forniti ai dipendenti degli showroom; di contro la contribuente ne sostiene la deducibilità in generale quali spese per prestazioni di lavoro ai sensi dell'art. 62 (ora 95) TUIR. La CTR accoglie la tesi del fisco. Invece è la tesi della contribuente, oggetto del secondo e del quinto motivo di ricorso incidentale, ad essere fondata.
L'art. 62 (ora 95) TUIR stabilisce che le spese per prestazioni di lavoro dipendente deducibili nella determinazione del reddito comprendono anche quelle sostenute in denaro o in natura a titolo di liberalità a favore dei lavoratori. L'art. 162 del CCNL, richiamato nelle difese con specifico riferimento alla localizzazione nell'incarto processuale, stabilisce che «quando viene fatto obbligo al personale di indossare speciali divise la spesa relativa è a carico del datore di lavoro». Il regolamento aziendale, richiamato nel ricorso incidentale (pag. 57 e 63), impone ai dipendenti d'indossare, durante le ore di servizio e durante le manifestazioni di moda, solo abiti contraddistinti dal marchio Gianni Versace, che dunque assumono una peculiare "divisa" nell'ambito di specifico di una compagine operante nel settore della moda. Dal punto di vista dell'imposizione diretta, dunque, questi oneri gestionali sono ad ogni effetto spese per prestazioni di lavoro perfettamente inerenti all'attività del Gruppo Versace, vista la loro destinazione al personale dipendente, e quindi sono integralmente deducibili nella determinazione del reddito d'esercizio.
Va chiarito che i motivi di censura della contribuente sono correttamente calibrati nel ricorso è sull'ART. 360 n. 3 c.p.c. attesa l'integrazione dell'ART.62 TUIR con la disposizione extrafiscale dell'art. 162 CCNL e l'equiparazione delle norme collettive a quelle di diritto introdotta dalla novella del 2006 (Cass. 19507/2014). I motivi rispondono inoltre al modello dell'autosufficienza "virtuosa" delineato delle sezioni unite (sent. 22276/2011) e dal recente protocollo con il CNF. Sarà compito del giudice di rinvio indagare se sia adeguatamente provato che i capi consegnati a domicilio riguardino dipendenti e se le consegne riguardino effettivamente abiti e complementi d'abbigliamento e non altri articoli di moda.
L'accoglimento del secondo e del quinto motivo comporta il riesame integrale della questione e dà luogo ad assorbimento degli altri motivi di ricorso incidentale giuridicamente correlati e logicamente subordinati per meri vizi motivazionali.
E. Conclusioni.
Una volta accolti i ricorsi nei sensi sopra indicati, la sentenza d'appello deve essere cassata in relazione con rinvio, anche per le spese, al giudice competente.
Sarà compito del giudice di rinvio anche delibare, se del caso, la questione degli effetti dello ius superveniens (DLgs. 158/2015) sulla determinazione delle sanzioni eventualmente a carico della contribuente (v. memoria, par.2).

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo, il terzo e il quarto motivo di ricorso principale e dichiara assorbito il secondo; accoglie il secondo e il quinto motivo di ricorso incidentale e dichiara assorbiti gli altri; cassa la sentenza d'appello e rinvia, anche per le spese, alla CTR-Lombardia in diversa composizione.
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