L’ART. 20 DEL DPR 131/86 NON E’ NORMA ANTIELUSIVA
CONSULENZA TRIBUTARIA, SOCIETARIA E DEL LAVORO
L’ART. 20 DEL DPR 131/86 NON E’ NORMA ANTIELUSIVA

L’ART. 20 DEL DPR 131/86 NON E’ NORMA ANTIELUSIVA

29 GEN 2017
Ogni tanto filtra un raggio sole in questo buio sensazionale ove, troppo spesso, i Giudici sono più attenti alle esigenze di cassa di una amministrazione idrovora, piuttosto che alla certezza delle regole, questione che non ha solo una incidenza diretta sulle aspettative dei professionisti e dei loro clienti, ma che rileva direttamente, o meglio preoccupa, chiunque pensi, anche solo lontanamente, di tornare ad investire nel nostro paese.
Il raggio di sole a cui ci siamo riferiti e che ci consente di poter tornare a sperare, è costituito dalla sentenza della Suprema Corte di Cassazione n. 2054, depositata il 27.01.2017, che rigettando le richieste dell’amministrazione finanziaria, ha negato all’ufficio il potere di riqualificare gli atti posti in essere dai contribuenti, (conferimento d’azienda in cessione di azienda), nell’ambito di una più complessa operazione di riorganizzazione, condannandolo anche alle spese di giudizio.
Con la citata sentenza la Corte di Cassazione ha finalmente posto termine ad un orientamento dalla stessa recepito negli ultimi anni e che ha visto come unico attore lo strapotere dell’ufficio di reinterpretare gli atti posti alla registrazione in virtù di una soggettiva lettura dell’art. 20 del DPR 131/86, reinterpretandone anche gli effetti economici.
La questione non è di secondaria importanza perché, come nel caso di specie, coinvolge sempre più le operazioni di riorganizzazione e ristrutturazione di gruppi societari che, fidando sul beneficio dell’imposta fissa, (prevista ai fini del registro) e sulla neutralità fiscale, (prevista per le imposte dirette), individuano nel conferimento d’azienda, con successiva cessione delle partecipazioni, lo strumento legale societario più idoneo per il perseguimento dell’obiettivo.
Invero, le doglianze delle società ricorrenti erano state anche accolte nei due gradi di merito e dopo il ricorso per Cassazione dell’ufficio, esse erano state dirette a far rilevare il decorso del termine triennale di decadenza ex art. 76 comma 2 del DPR 131/86, (secondo i ricorrenti decorrente dagli atti di conferimento e non dagli atti di cessione di quote) e la inutilizzabilità in funzione antielusiva dell’art. 20 del DPR 131/86.
La Suprema Corte dopo aver ricordato che l’abuso del diritto preclude al contribuente di ottenere vantaggi fiscali, mediante l’uso distorto di strumenti giuridici, che seppure non contrastanti con alcuna specifica disposizione normativa, sono esclusivamente[1] diretti ad ottenere un illecito risparmio di imposta, ha rigettato la domanda dell’ufficio, specificando che l’art. 20 del DPR 131/86, non è una norma antielusiva posta a presidio dell’imposta di registro e che la fattispecie contestata (conferimento) costituisce una operazione legittima e dotata della medesima dignità di quella riqualificata (cessione d’azienda) e cioè testualmente un’ipotesi di legittima scelta di un tipo negoziale invece di un altro.
Secondo la Corte insomma, l’art. 20 del DPR 131/86, è una norma diretta alla interpretazione degli atti soggetti a registrazione e non alla riqualificazione degli stessi in chiave antielusiva, questione, aggiungiamo noi, che tra l’altro è anche stata confortata dalla recente introduzione dell’art. 10 bis nell’ambito dello Statuto dei diritti dei contribuenti.
La sentenza ha così chiarito che se è vero che l’amministrazione finanziaria non è tenuta ad accogliere acriticamente il nomen degli atti proposti dai contribuenti e portati alla registrazione, è altrettanto vero che essa non è dotata del potere di esorbitare dallo schema negoziale dell’atto, o meglio e per dirla con le parole della Suprema Corte non deve ricercare un presunto effetto economico dell’atto, superandone gli effetti giuridici.
In sostanza i Giudici hanno, a mio modesto parere, ricondotto il treno sui giusti binari, ribadendo che l’imposta di registro è diretta a valutare l’atto sottoposto a registrazione, individuandone l’effettiva natura giuridica, questione sulla quale la stessa Corte si era già espressa nella sentenza n. 15768 del 27 luglio 2005, il tributo in oggetto.. è pacificamente costruito, sia in dottrina che in giurisprudenza, come “imposta di atto, il che vuol dire che deve essere riferito all’atto in sé considerato, sia esso di natura negoziale o non”, mentre con la sentenza n. 14649 del 12 luglio 2005, aveva precisato che l’imposta di registro non mira a colpire il trasferimento di ricchezza, ma inerisce direttamente all’atto….
 
 
[1] La parola esclusivamente non è casuale, ma è volta a far rilevare che la disposizione rimane inoperante allorquando le operazioni contestate siano supportate da valide ragioni economiche, certamente esistenti in ipotesi di riorganizzazione aziendale.
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